DA DOVE VIENE LA REPRESSIONE, DOVE CI PORTANO I DECRETI MINNITI
Il 12 aprile il Parlamento ha definitivamente convertito in legge i due decreti, approvati dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 febbraio, che portano la firma del nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti (e nel caso del provvedimento dei migranti, anche quella del ministro della Giustizia Andrea Orlando, opposizione «di sinistra» a Renzi all’interno del Partito Democratico). Dopo l’esperienza del referendum costituzionale che il 4 dicembre ha bloccato momentaneamente i piani controriformatori e reazionari dell’élite italiana ed europea riguardo la Carta Costituzionale, le minacce riguardanti l’instabilità e la mancanza di alternativa si sono rivelate per quello che erano: minacce, finalizzate a incutere paura e incertezza tra gli elettori, mentre il ceto dirigente italiano preparava il suo piano di riserva. L’alternativa veniva paventata come inesistente, e in un certo senso hanno trasformato questo mantra ideologico in realtà con il governo Gentiloni, fotocopia, per composizione e linee politiche, del governo Renzi contro cui il voto referendario si era espresso con nettezza.
L’esecutivo nato il 12 dicembre scorso si è trovato a capo del paese in una fase fondamentale per l’evoluzione del quadro politico internazionale, proprio nei mesi in cui negli Stati Uniti assumeva il ruolo di Presidente Donald Trump e i principali paesi dell’Unione Europea si trovavano ad affrontare la sfida delle competizioni elettorali (Francia, Olanda, a settembre la Germania, nonché la Gran Bretagna post-Brexit a giugno); tutto questo nello stesso periodo in cui, proprio in Italia, si andavano delineando all’orizzonte fondamentali appuntamenti internazionali come il summit europeo del 25 marzo a Roma per i sessant’anni dalla nascita della Comunità Economica Europea e il G7 a Taormina. In questo panorama in cui si vanno ridefinendo aree di influenza economica e politica a livello globale, in questa fase dirimente per il processo di costruzione e rafforzamento dell’Unione Europea come polo autonomo e competitivo nell’arena della globalizzazione, il governo Gentiloni non poteva essere il governo della transizione che, seppur nelle dinamiche elettorali, riaffida il proprio mandato al popolo attraverso nuove elezioni; invece doveva essere il governo che, nella confusione degli scopi e degli obiettivi della fine della legislatura, nell’apertura di spazi di lotta e di ricomposizione sociale delle fasce più ricattate che la caduta del governo Renzi avrebbe portato, doveva garantire la riuscita di importanti appuntamenti istituzionali senza fastidi, interruzioni e contestazioni, nonché limitare al massimo il moltiplicarsi del dissenso e di quelle sacche di resistenti che continuano a combattere contro le politiche di austerità, la cancellazione dei diritti dei lavoratori e la destrutturazione del welfare state; bisognava incutere timore, criminalizzare, frammentare e reprimere, nella più classica tradizione del divide et impera per salvaguardare il processo di affermazione dell’UE nei giochi degli imperialismi mondiali. La persona a cui era stato affidato il compito di realizzare questa linea strategica è stato proprio Minniti, già legato agli ambienti della Difesa e dei Servizi Segreti.