La follia omicida è un sintomo, la cultura del terrore è la malattia

La guerra tra poveri è scoppiata. Non da qualche giorno, non grazie alle elezioni politiche del 4 marzo, dal momento che il confermarsi della Lega e di altre forze xenofobe rappresenta solo un passaggio di questa stessa guerra. È poi successo che a Firenze un uomo, disperato a dire della stampa, ha deciso di riversare la sua rabbia su un senegalese. Sempre a Firenze, dove il 13 dicembre 2011 erano stati assassinati proprio Samb Modou e Mor Diop da mano fascista e xenofoba. Un ambulante senegalese che si chiamava Idy Diene e che come Samb Modou (suo cugino) diventa di nuovo il capro espiatorio di un bianco.

L’uomo avrebbe negato ogni motivazione razziale del gesto (forse per evitare di imputarsi altre aggravanti?), tuttavia a noi appare evidentemente come l’ennesimo atto di razzismo in un paese dove la guerra tra poveri sta diventando sempre più tragica. Il razzismo è un rapporto di dominio, radicato nella società, che opera anche in maniera sotterranea e che va sempre e solo in un’unica direzione: dal dominatore “legittimo” contro chi invece è escluso dalla “normale” società civile.

In questo contenitore degli esclusi troviamo chi abita le periferie, i giovani precari, coloro che faticano ad arrivare a fine del mese, ma in fondo al barile stanno soprattutto i diversi, i migranti, i neri. questo per far capire che se l’ennesimo “italiano disperato” ha deciso di sparare in testa al primo che passava, per andare in prigione e non gravare più sulla famiglia, non può esser visto come un caso che sotto quei colpi sia caduto proprio un ambulante senegalese.

Ma andiamo avanti, non vale la pena scomodare difficili interpretazioni sociologiche per capire il clima che si sta sviluppando in Italia.

Questi fatti si riconducono alle violenze e alle vessazioni che conosciamo: oltre ai casi eclatanti della già citata strage di Firenze del 2011 ricordiamo i fatti di Macerata, dove il fascioleso Traini non ha voluto nascondere minimamente il suo razzismo, pretendendo di far pagare a tutta la comunità nera un delitto odioso come l’omicidio di Pamela. Pamela che, per inciso, rappresenta un’altra categoria dell’emarginazione, quella dei tossicodipendenti; quando non sono strumentalizzaili sono i primi su cui si abbatte la furia della destra legalitarista.

Quello che ci interessa far notare ora è come questi eventi rappresentino i punti più alti ed eclatanti della guerra tra poveri che ci hanno scatenato contro da un pezzo, che affonda le sue radici nel profondo malessere sociale, indotto dalla cultura dell’austerità e canalizzato dalla cultura del decoro. Nel capitalismo contemporaneo lo stesso concetto di persona è stato retoricamente portato sul piano della concorrenza: bisogna competere per il lavoro, per la casa, per la cittadinanza. Il fatto che questa competizione venga portata avanti sul campo dei diritti è quanto di più utile ai potenti. Diritti (sociali ed individuali) vanno guadagnati malgrado le altre persone e non attraverso la lotta verso l’alto: l’italiano è stato messo contro il migrante, il bianco contro il nero, il vecchio contro il giovane e via dicendo. Un tipo di retorica che finora si è rivelato formidabile per minare gli sforzi di chi ricostruire le solidarietà di classe, per aumentare i profitti di chi specula su questa lotta tra i poveri.

Succede poi che, stremata dall’ennesimo assassinio, la comunità senegalese di Firenze scenda in piazza e nella sua rabbia, dal nostro punto di vista non solo giustificabile e comprensibile ma perfino doverosa, ci rimettano alcune fioriere e un paio di cestini. Che l’indignazione generale si riversi su questo è per noi chiaramente sintomatico di qualcosa di spaventoso: è stato ucciso un uomo, uno dei nostri oltretutto, uno dei sepolti delle nostre città, tenuto sistematicamente a margine del dibattito pubblico, ma l’importante sono le fioriere, il feticcio vuoto del decoro urbano.

L’era Minniti ci ha lasciato questo in eredità, guerra tra poveri e militarizzazione. Siamo convinti che il nostro compito storico sia rompere questo circolo vizioso, ricostruire le solidarietà di classe è diventato non più solo un progetto politico, ma una vera e propria necessità per la nostra sopravvivenza. Perché dal migrante al precario, dagli ambulanti ai riders, dagli operai agli studenti siamo stati messi l’uno contro l’altro, ma abbiamo la forza necessaria per riprendere il coltello dalla parte del manico e contrattaccare.