Soumayla Sako, ventinovenne, bracciante agricolo, maliano e sindacalista USB, è stato assassinato a colpi di fucile nelle campagne della Calabria, mentre recuperava lamiere per la propria baracca in una fabbrica abbandonata.
Purtroppo l’omicidio del giovane, è solo l’ultimo di una serie che ha insanguinato le nostre strade negli ultimi anni. Siamo costretti a ricordare questa storia fatta di violenza razziale che parte da Firenze, dove la mano razzista di un militante di Casapound già il 13 dicembre del 2011 ha insanguinato Piazza Dalmazia uccidendo i due lavoratori senegalesi Samb Modou e Diop Mor. Questa tragica storia continua con l’assassinio di Abd El Salam, anche egli militante dell’USB e lavoratore della logistica, travolto durante un picchetto del suo sindacato da un tir nella notte tra il 14 e il 15 settembre 2016. Dobbiamo poi ricordare Nian Maguette, morto a Roma durante un blitz dei vigili urbani contro di lui e altri ambulanti il 3 maggio 2017.
Avevamo avuto modo di commentare tempo addietro gli avvenimenti di Macerata dello scorso 3 febbraio e quelli di Firenze del 5 marzo.
Non si è trattato di un caso isolato, Soumayla è l’ennesima vittima di una triste e lunga vicenda che ci riconsegna un paese che cova i germi del razzismo nel profondo: questi vengono da anni coltivati dai governi di turno, che con punte securitarie e razziste inseguono il consenso sulla pelle degli ultimi, cercando di irretire l’Italia più borghese e benpensante quanto quella che descrivono come “esasperata” dai migranti. La retorica degli immigrati negli alberghi, del razzismo contro gli italiani, del diverso come portatore di degrado e criminalità è stata ampliamente legittimata da tutte le forze politiche dell’arco liberale; la grande opposizione tra decoro e degrado urbani ha funzionato come cavallo di troia ideologico anche e soprattutto nelle zone più vulnerabili del paese, quelle funestate dalla quasi totale mancanza di politiche sociali adeguatamente finanziate e pensate per ridurre le disuguaglianze. In questi luoghi, in provincia e nelle periferie delle grandi città, si è soffiato sull’odio basando fomentando la guerra tra poveri, mettendo scientificamente un diseredato contro l’altro.
Non è un episodio, Soumayla è uno dei caduti in una guerra tra i poveri, scatenataci contro da una classe politica che continua a tutelare solo gli interessi dei potenti anteponendole alle nostre stesse vite. Il neo ministro dell’interno Salvini è la massima espressione di questo approccio, ma non possiamo dimenticare come il suo futuro operato sia stata spianata la strada da Marco Minniti. È stato proprio quest’ultimo a superare perfino le angherie razziste della legge Bossi-Fini, che rendeva ricattabili oltre ogni limite i lavoratori immigrati tramite la criminalizzazione della loro stessa condizione. Minniti ha completato, con l’abilità che solo un uomo dei servizi poteva avere, quel percorso che ha portato all’istituzionalizzazione di quel sistema che era già escludente di fatto. Dopo il suo operato si può parlare di un vero e proprio regime di apartheid che si impone in Italia: un imponente dispositivo che regola il sistema di reclusione messo in atto nei confronti dei migranti, in ossequio alla dottrina liberale che vorrebbe i flussi migratori come regolabile tramite un interruttore, da spingere a seconda del bisogno di manodopera. Non è un caso infatti che il suo successore Salvini abbia riconosciuto i meriti di Minniti, come se questo avesse gettato le basi per il suo futuro impegno, definendo “discreto” il lavoro fatto dall’ex uomo dei servizi.
Sorprende quindi anche l’atteggiamento di molti mezzi di informazione vicini al precedente governo, che colgono questa ghiotta occasione per dare addosso al neonato e travagliato patto gialloverde; sono stati i loro sponsor politici principali infatti a legittimare fino a poco tempo fa tutto questo: le misure antisociali, imposte dalla folle ossessione ai bilanci in pareggio direttamente espressione dell’ordoliberismo di Bruxelles e dell’UE, sono state di certo tra le prime cause di questa situazione da lotta tra poveri. Si delineano quindi due schieramenti, nella polarizzazione del dibattito mainstream italiano: da una parte abbiamo gli editoriali dei media vicini al PD che, con un pietismo ributtante, rivendicano le misure di “realpolitik” del precedente ministro degli interni; dall’altra la stampa di destra indica Soumayla come il solito ladruncolo nero, quello che “se l’è cercata”. La cronaca reale dei fatti invece sta rivelando come intorno alla fabbrica abbandonata ci fosse un giro di rifiuti tossici, per proteggere il quale si è deliberatamente deciso di prendere a fucilate dei ragazzi, ma questo non interessa realmente i media nostrani.
L’Unione Europea, oggi sotto accusa da parte dei leghisti proprio sul tema dei migranti, ha apparecchiato complice il tavolo al razzismo: facendo dell’Italia e degli altri paesi del sud un contenitore di lavoratori pronti all’emigrazione e alla flessibilità lavorativa ha creato un meccanismo perverso d’importazione ed esportazione di braccia e menti. La dottrina della flessibilità del lavoro, condita con la retorica della generazione erasmus e della mobilità, è la base per mantenere il costo del lavoro basso e competitivo per le imprese del centro-nord europeo; mettere un lavoratore contro l’altro diventa quindi imperativo categorico per lo sviluppo di questo sistema, creando una vera e propria competizione al ribasso.
L’erosione dei diritti sul lavoro, necessaria ai progetti della borghesia continentale, ha colpito quindi tutte le classi subalterne come una tagliola, mettendo in competizione gli ultimi per il posto di lavoro o la casa popolare. Vale la pena insistere sulle responsabilità delle politiche comunitarie, che tramite l’ideologizzazione del discorso delle risorse limitate e l’istituzionalizzazione dell’austerità, ottenuta grazie a misure come il pareggio in bilancio inserito nella costituzione, hanno gettato le basi per il clima di razzismo. Tutto questo è funzionale al mantenimento dell’equilibrio, tramite lo spauracchio del “populismo” vengono spinti elettoralmente quei partiti che di questo ordine si fanno garanti: la macelleria sociale esaspera la situazione, i partiti xenofobi avanzano e subito si levano gli scudi europeisti, il gioco è riuscito in Francia con Macron, in Germania con le grandi coalizioni. Questo meccanismo si è solo apparentemente inceppato in Italia, scatenando le armi della finanza che hanno riportato l’equilibrio a colpi di spread: il governo gialloverde dopo una lunga querelle si è infine configurato sempre sotto l’egida del rigore dei conti, pronto a continuare la guerra tra i poveri tramite sgomberi, flat tax e massacro sociale.
A tutto questo ci troviamo oggi a dover dare una risposta collettiva, che non cada nella banalità liberale ma che sia in primo luogo una risposta di classe, tenendo però bene in conto le identità e le storie di coloro che si mettono in gioco nella lotta. Soumayla Sako è proprio uno di quelli che, partendo dalla propria condizione materiale di sfruttato, cercava il riscatto per se ed i suoi fratelli e compagni braccianti senza dimenticare il suo portato storico e senza scendere a compromessi con la propria identità, perché propedeutiche alla sua autodeterminazione; solo in questo modo infatti, nel mutuo riconoscimento, si può trovare la strada per lottare ed organizzarsi insieme, riconoscendo la vicinanza delle proprie istanze materiali e lottando fianco a fianco ed alla pari.
Viene proprio dal sindacato in cui era attivo il giovane maliano il primo appello alla mobilitazione di questa nuova stagione politica, un primo momento dove potersi unire nella lotta al governo lega-5stelle come all’UE ed al PD: sono queste le due facce del classismo e del razzismo che si sono imposte in questo paese e che devono essere combattute, insieme fino all’ultimo!
Potete trovare altri approfondimenti sul tema dei lavoratori immigrai qui e qui.
Ci vogliono divisi, ci troveranno uniti!