Braccia o persone? Categorie neoimperialiste del discorso sui migranti – pt. 1

La loro lotta per la vita è anche la nostra!

La marcia dei migranti da Cona, dove si trovavano in un centro di accoglienza in condizioni di estrema precarietà, a Venezia.

La migrazione di donne e uomini verso l’Italia è un fenomeno relativamente recente, se si pensa ad altri contesti come la Francia o la Germania; per un lungo periodo l’Italia non è nemmeno stata dotata di una legislazione chiara in materia, e quando finalmente ha deciso di prendere l’iniziativa i risultati sono stati nella buona parte dei casi peggiorativi delle condizioni dei migranti. La retorica che ha sempre tenuto il campo, nel dibattito pubblico e nella politica italiana, è sempre stata in questo senso pregna di un ragionamento utilitaristico, che nulla ha a che fare con le reali necessità del primo attore coinvolto nel processo migratorio: il migrante stesso, che esiste solo come soggetto muto nel piano legislativo italiano.

Ad oggi questa rappresentazione tutta culturale e pregiudiziale è centrale sia nel discorso sfrontatamente razzista della destra salviniana, sia nel pietismo liberale di una certa “sinistra” politica che non ha intenzione di cedere nulla della sua posizione di dominatore occidentale. Il ragionamento appiattito su un mero dato tecnico porta a negare ogni tipo di agentività politica ai migranti, che dal canto loro subiscono questi processi di vera e propria acculturazione forzata e di razzismo in una posizione svantaggiata nei rapporti di forza. In pochi purtroppo in Italia si sono scomodati per coinvolgere i migranti in processi politici reali che li interessavano, questi spesso purtroppo sono ridotti ad un soggetto senza voce.

L’oggettivazione come strumento di dominio

Quando pensiamo istintivamente alla figura del migrante, o del profugo, è difficile fare a meno di richiamare alla mente il repertorio dei telegiornali: le immagini di queste ‘masse dannate’, stipate caoticamente sui barconi o negli SPRAR; folle anonime e miserabili, una giungla disordinata di braccia e gambe e teste dal tono vagamente dantesco. L’Inferno di Dante è diventato l’”icona” delle migrazioni e delle crisi umanitarie del nostro tempo, come di altri, e costituisce un’icona disumanizzante. Risulta quasi innaturale perciò soffermarsi su una considerazione elementare, eppure sistematicamente trascurata quando ci si approccia alla questione: i migranti sono a tutti gli effetti persone, non solo e non tanto nell’accezione umanitaristica del termine (cioè titolari di diritti umani inalienabili), ma anche e soprattutto nel senso che sono a tutti gli effetti soggetti attivi della Storia, agenti politici per se, e non in funzione subordinata rispetto a qualche partito o gruppo allogeno. Controintuitivamente, ma in modo trasversale e quasi-naturale, i migranti vengono talvolta demonizzati, talaltra vittimizzati, subordinati a questo calcolo economico o quel calcolo sociale, in una parola: sono sistematicamente oggettivati in quanto gruppo umano.

L’oggettivazione è spesso implicita, sotterranea, anche se a volte tende a riaffiorare verso la superficie. Così ad esempio, in occasione del violento sgombero di via Curtatone a Roma di questa estate, il capo della polizia Gabrielli si è voluto scagliare contro chi ha consentito a un’umanità varia di vivere in condizioni sub-umane nel centro della capitale”. L’esempio che abbiamo scelto tra i tanti possibili è particolarmente significativo, perché Gabrielli non rappresenta una ‘parte’ comunque intesa, ma l’ordine costituito; dunque le sue dichiarazioni sono il migliore indicatore della generalità di questo atteggiamento. Per Gabrielli i migranti (l’umanità varia) sono una entità impersonale, completamente passiva, argilla duttile nelle mani dei sobillatori, dei burattinai, i veri responsabili della crisi abitativa romana. Il carattere reazionario di questa operazione è evidente. È molto difficile accusare un povero di essere povero, è difficile convincere l’opinione pubblica che qualcuno decida deliberatamente di abitare un luogo pericoloso e malsano “in condizioni subumane”, quando dispone di così tante alternative sicure, istituzionali, legali… Per assolvere il lupo ai danni dell’agnello, come nella favola di Fedro, serve una operazione articolata in due tempi. In primo luogo la completa spersonalizzazione dei diretti interessati, la pittoresca “umanità varia” che non può essere e non è mai in grado di scegliere per sé, di assumersi delle responsabilità, di assumere in prima persona il ruolo che le spetta nella società. In seconda battuta, la condanna feroce dei “veri” colpevoli, di volta in volta i facinorosi, i populisti et similia, colpevoli di spingere le masse contro il loro stesso interesse. La retorica di Gabrielli può essere facilmente generalizzata, nella sua completa trasversalità politica: a destra l’oggettivazione è “ostile”, si manifesta nella disumanizzazione e nella criminalizzazione, mentre a sinistra è “amichevole”, vittimizzante il più delle volte, oppure orientata ad appiattire i migranti sulle loro “funzioni” prettamente economiche (dobbiamo accoglierli se e nella misura in cui “ci pagano le pensioni”, o “fanno figli” eccetera). In ogni caso costoro non sono soggetti,dunque non hanno diritto né titolo di esprimersi per se stessi e nel proprio interesse, ma sono tirati in ballo solo quando sono funzionali all’agenda politica altrui – che la funzione sia positiva o negativa non importa. Del resto l’oggettivazione è trasversale anche in termini sociali, nel senso che è regolarmente applicata non solo sui migranti, ma su tutti i gruppi e le classi che occupano una posizione subordinata, quando tentano di mettere in discussione lo status quo. Così di volta in volta ad essere “irresponsabile” (nel senso di: estraneo alle sue proprie azioni) è il lavoratore che boccia una consultazione aziendale, lo studente che scende in strada, o più in generale l’elettore che osa esprimere il proprio voto contro “il buon senso del potere”: in Italia, in Grecia, in Catalogna.

Così come l’oggettivazione è uno strumento fondamentale di dominio sul piano ideologico, la sua negazione è una condizione di emancipazione. È il momento per noi (militanti, attivisti, esseri umani) di individuare una volta per tutte qual è il campo decisivo su cui si gioca la questione dei migranti: non quello della sensibilizzazione, non quello del soccorso, ma quello della organizzazione, della politicizzazione, cioè della trasformazione dell’”umanità varia” in “umanità politica”. Quando i migranti avranno una coscienza propria, una rappresentanza politica propria, delle pratiche proprie di lotta, allora loro stessi e tutti noi avremo delle migliori opportunità per individuare le contraddizioni nella nostra società, e risolverle in una prospettiva progressiva, di liberazione. Per fortuna si stanno muovendo alcuni passi in questa direzione: l’organizzazione dei braccianti in Puglia e in Calabria, ad esempio, sta dando risultati incoraggianti. Ma la strada è ancora lunga: il nostro compito è assisterli in questo percorso.