Marxismo e Accademia. Riflessioni sul socialismo della cattedra

Il cinque luglio di quest’anno veniva pubblicata su Micromega una lunga e appassionante intervista al sociologo Erik Olin Wright, uno degli esponenti di spicco della “scuola” (se così si può almeno approssimativamente definire) del marxismo analitico. Il lavoro di Olin Wright si è concentrato principalmente sulla questione della operazionalizzazione del concetto marxiano di classe sociale.

Ogni studioso di Marx sente (o dovrebbe sentire) di avere un debito di una certa importanza nei confronti dei “marxisti analitici” (ad Olin Wright affianchiamo Elster, Roemer, Bowles). Il loro lavoro ha permesso di liberare la componente strettamente positiva (ovvero ‘scientifica’ nel senso più stretto del termine) del lavoro di Marx dai sedimenti metafisici, dalle incrostazioni, dalle confusioni delle interpretazioni (o manipolazioni) successive. Quest’opera è chiaramente di importanza fondamentale per la ricerca sociale, permette di formulare ipotesi e modelli in maniera tale da poter essere (con tutte le cautele del caso) verificabili, permette in definitiva un avanzamento complessivo della nostra coscienza della società. Per questo l’intervista merita di essere letta con grande interesse e piacere.

Tuttavia, il miglior pregio del metodo degli analitici si trasforma nel suo punto di debolezza quando pretendiamo di applicarlo fuori dal suo ambito proprio (l’indagine scientifica positiva) e sconfiniamo nel campo sempre mutevole e intrinsecamente contraddittorio della praxis. Se l’interpretazione del soggetto evolve da scienziato, osservatore astratto di un oggetto estraneo, a intellettuale organico o militante, ineludibilmente aggrovigliato al proprio oggetto (ed oggetto egli stesso), allora deve necessariamente evolvere anche il sistema di riferimento. Non c’è modo di trattare in questo articolo la grande complessità del rapporto fra scienza, cultura, politica che emerge nella letteratura, ci basta riconoscere che il paradigma “empirista” è insufficiente in questo contesto nuovo e porta a debolezze anche importanti. L’intervista di Olin Wright merita di essere letta proprio perché include alcuni dei principali abbagli risultanti proprio da questo “riduzionismo”, che oggi è piuttosto diffuso e proprio in particolare del marxismo occidentale contemporaneo. Nello specifico:

Il proposto dualismo strategico tra “processo” e “rottura”, che si risolve in favore del primo e ai danni della seconda, è una forzatura anti-storica. Basta rivolgersi all’esperienza di tutti i movimenti rivoluzionari rilevanti (del primo e del secondo dopoguerra, della decolonizzazione, ai movimenti di emancipazione delle donne e delle minoranze) per rendersi conto che questi hanno attraversato lunghe fasi “processuali”, è vero, nel senso che sono stati percorsi diffusi e multilivello, plurali ed estesi in termini di spazio e di tempo. Si può dire, come si nota anche nell’articolo, che tutti i movimenti di massa passano attraverso lunghe fasi di “guerra di posizione”, nell’accezione gramsciana del termine. Eppure questi percorsi non si sono mai sviluppati e non possono svilupparsi senza soluzione di continuità, in maniera perfettamente lineare, dal momento che incontrano presto le resistenze dell’avversario di classe, incontrano la repressione e il contenimento. La trasformazione della società è un gioco competitivo. Per questo il movimento, lungi dal risolvere le contraddizioni sociali in maniera progressiva, “in itinere”, contribuisce ad accumulare queste contraddizioni, ad evidenziarle, e inevitabilmente a farle esplodere simultaneamente, in un punto catastrofico di “rottura” che non può essere evitato. L’idea di trasformare la società giocando un long game, in cui la lotta ha tempo per reinventarsi e riorganizzarsi di volta in volta, mano a mano che un problema nuovo si presenta, imparando pazientemente dai propri errori è attraente, perché ci libera dalla necessità di concepire uno strumento, di costruire una organizzazione concreta dentro la classe, di dotarsi di una capacità operativa in grado di affrontare grandi sfide in tempi brevi. Purtroppo è un’idea falsa perché di fatto esistono delle singolarità storiche, dei momenti critici nei quali si agisce organicamente o si muore.

Manca la capacità di fornire una risposta realistica alla frammentazione della classe. La questione della frammentazione di classe viene risolta col piglio arido dell’analitico: “ se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, allora rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione. “ Non importa quanto le identità e le condizioni materiali del proletariato siano diverse, perché tutti siamo sottoposti ad un potere qualitativamente uniforme, che scaturisce dalla concentrazione capitalistica. Dunque dobbiamo democratizzare tutto. Di nuovo, una soluzione generica che non ci sembra molto d’aiuto in senso pragmatico. La sistematica sottovalutazione della lotta spinge, come sopra, a trascurare gli aspetti specifici della questione di classe, che tragicamente sono ben più importanti, in un contesto militante, rispetto agli aspetti generali. Qual è il ruolo specifico di ciascuna categoria del lavoro nella costruzione di una resistenza di classe? Dove cominciare per riaggregare le identità perdute del proletariato? Sono domande chiave della nostra epoca, di cui nessuno può affermare con certezza di avere la risposta, ma, di nuovo, il riduzionismo di Olin Wright non ci aiuta a fare un passo in nessuna direzione.

La completa mancanza di un’analisi concreta e pregnante dell’imperialismo. A fronte di una centralità (giustamente, si può dire) restituita al nucleo primo dell’analisi marxiana, che è lo studio delle relazioni di potere nell’impresa, e dunque nello stato e nella cultura, manca una sensibilità profonda per le conseguenze dell’espansione capitalistica in termini di rapporti imperiali fra le società, della subordinazione della periferia al centro, delle modalità con cui, ad esempio, le aristocrazie operaie del centro vengono cooptate -e il loro potenziale critico distrutto- dalla classe dominante, attraverso la concessione di privilegi specifici su base razziale, di genere ecc. Quando si afferma che “non ci sarebbe nessuna ragione particolare per cui una parte del sistema globale debba essere privilegiata sulle altre” si afferma l’idea che le condizioni di un operaio greco e uno tedesco, o di un americano e un nepalese siano tutto sommato uniformi, e che i compiti specifici delle classi nazionali siano fondamentalmente gli stessi, in funzione di una generale “democratizzazione” della società. Si tradisce qui una carenza dell’analisi. Allo stesso modo per quanto riguarda l’Unione europea: se l’unica categoria per lo studio dell’Unione è quella di un quasi-stato in cui gli interessi di classe e le contrapposizioni di classe si riproducono in maniera perfettamente trasversale, si deve riconoscere che non esiste una ragione solida per rifiutare l’integrazione politica. Ma così non è, perché l’UE rappresenta un dispositivo imperialista, costituzionalmente asimmetrico, che riproduce rapporti di dominio tra le classi (sull’asse capitale/lavoro) e tra i paesi (sull’asse continentale/Mediterraneo e orientale). Ma tutte queste specificità non vengono colte se ci si ostina a confidare su un numero estremamente ridotto di strumenti analitici astratti.

Qui mi sono sforzato di mostrare come queste confusioni che ritroviamo, in forme analoghe, un po’ in tutta la sinistra d’occidente non siano delle deviazioni accidentali, ma siano la conseguenza di un più generale smarrimento. Smarrimento derivante dal fatto che almeno da quarant’anni a questa parte abbiamo seriamente smesso di interrogarci e discutere sul metodo di indagine marxista. Al dogmatismo liturgico e fondamentalmente vuoto dell’ortodossia sovietica si è contrapposta in occidente, per reazione, una interpretazione radicalmente economicista e strettamente positivista del marxismo, che non rende giustizia a quella tradizione intellettuale che da Marx a Marcuse, passando per Gramsci e Lukacs, si è sforzata di individuare l’interazione mai compiuta tra teoria e prassi, soggetto e oggetto, scienza e potere, per ambire a costruire un quadro interpretativo totale della società umana.

LC

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