Atenei di classe made in Bruxelles – verso l’assemblea del 1 dic a Bologna

Dai nostri primi momenti fondativi come Collettivo Politico Porco Rosso ci siamo subito posti il tema di cosa stesse diventando l’Università. Dell’agibilità politica degli atenei italiani da parte delle istanze studentesche è rimasto ben poco a fronte di quello che, a nostro avviso, è stato un forte restringimento degli spazi democratici; mentre i resti di quel sano confronto con le altre componenti accademiche sono stati sacrificati sull’altare della nuova logica aziendale. Ci siamo interrogati anche sulle ricadute sociali di questo nuovo sistema, con le conseguenze che vediamo in tutte le nostre città, fatte di esclusione dei gruppi più svantaggiati come, appunto, diventano gli studenti fuori sede. Ci siamo fatti due domande su da dove venissero le spinte verso la riduzione delle università a fabbriche di cervelli caldi e pronti per il mercato del lavoro neoliberista. 

Per questo abbiamo accettato con entusiasmo l’invito da parte dei compagni di Noi Restiamo a partecipare all’assemblea del 1 dicembre.  Di seguito troverete un’estratto del nostro contributo e l’appello della giornata.

Ci vediamo al 22 di via Zamboni – aula 3 – ore 16! Qui il link dell’evento Facebook.

 (…) Il modello che doveva nascere dal Processo di Bologna, ovvero quello di uno “Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore”, già aveva nelle sue basi fondative un «sentore di classe» quando tra i principali scopi metteva la cooperazione per un miglioramento della competitività dei paesi UE. Tale connotazione padronale si è poi concretizzata in due modi differenti. Da una parte vediamo infatti il fallimento pressoché totale di ogni effettiva armonizzazione delle istituzioni universitarie europee, così come è tragicamente fallito il ripensamento dei contenuti e dei metodi della didattica secondo le necessità di una rete europea della formazione che davvero si fondasse sull’interscambio, sulla multiculturalità e sulla mobilità studentesca; basti pensare a come ancora oggi sorgono continui problemi nel riconoscimento dei crediti conseguiti dagli studenti partiti in Erasmus, quest’ultimo una trovata che ad oggi appare squisitamente propagandistica e meramente finalizzata alla creazione di una retorica generazionale da parte del potere. In un discorso che non corrisponde assolutamente alla realtà di esclusione politica, mobilità forzosa, sfruttamento e precarietà cui sembriamo invece oggi destinati ci si è voluti affibbiare l’etichetta di “generazione Erasmus” come dispositivo di acculturazione e costruzione di un sentimento etnonazionalista europeo funzionale alle manovre di Bruxelles e dell’elite imprenditoriale che spera di avere in tal modo un esercito di riserva itinerante di lavoratori specializzati. Dall’altra parte invece vediamo l’opposto funzionamento sostanzialmente coerente con la strategia imperiale europea, messa in atto dai successivi progetti che prevedevano in modo più specifico la presenza di finanziamenti per l’imprenditoria a scapito di quelli per la formazione. L’Italia nel 2016 era il penultimo paese dell’UE per laureati, appena prima della Romania, eppure ben il 10% dei fondi per l’innovazione e la ricerca del programma Horizon 2020 sono andati ad aziende italiane, e un terzo di queste non a caso sono operative in Lombardia, la regione che più integrata nel circuito produttivo dello «zoccolo duro» dell’UE, cioè l’Europa centrale e in particolare la Germania. (…)

DOVE STANNO ANDANDO I NOSTRI ATENEI?

Prima assemblea nazionale
Università di Bologna, aula 3 scuola di Giurisprudenza, via Zamboni 22

venerdì 1 dicembre 2017, ore 16

A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si potrebbe dire che viviamo tempi molto interessanti. La necessità di riconoscere e studiare le faglie attraverso cui far avanzare interessi alternativi a quelli del profitto si interseca oggi con una situazione che ci interroga sui caratteri tutti inediti dello scenario in cui viviamo. Tra gli altri, come studenti universitari di un paese come l’Italia non possiamo non sottolineare che le vite delle nuove generazioni sono legate a doppio filo con le sorti del capitalismo continentale, il quale si riorganizza secondo l’unità di azione impressa dagli organismi dell’Unione Europea in un contesto di accesa competizione internazionale, con una rilevante accelerazione dopo lo scoppio della crisi ormai quasi dieci anni fa. In questo paese la frazione di classe dirigente con vocazione europea detiene le redini dei settori fondamentali da molto tempo, e rispetto al particolare ambito dell’Alta Formazione possiamo riconoscere un percorso di riforme tutte coerenti tra loro, nonostante l’alternanza tra governi di centro-destra e centro-sinistra che su questi come su altri temi hanno dimostrato una particolare omogeneità di vedute, aldilà delle parole sbandierate in campagna elettorale.

Infatti, gli appelli politicisti del passato sul rilancio della cultura e della ricerca pubblica si sono poi mostrati per quello che erano quando si è trattato di metterli in pratica: salvare la formazione d’eccellenza aperta a pochi fortunati, formare giovani menti che sgomitano per essere spedite all’estero nei paesi core dell’economia europea, destinando agli esclusi un percorso di precarietà segnato tanto dalle riforme del lavoro, quanto dalla crisi sistemica e dalla disoccupazione, nonché dall’introduzione di nuove tecnologie che rendono a dir poco obsoleto quanto appreso fino a ieri. Il sistema dell’Alta Formazione riconosce ancora una centralità del pubblico, ma è evidente come nella cornice dei Trattati comunitari “pubblico” non sia sinonimo di “interesse collettivo per il bene comune”, ma sempre più esso agisca per conto terzi e, per restare nell’ambito che qui ci interessa, il pubblico stia cercando di collocare l’Università e la Ricerca nello stato italiano al posto loro assegnato nel puzzle ricomposto dai riassestamenti del sistema produttivo europeo.

Per i singoli atenei, tutto ciò comporta delle scelte importanti da affrontare per ricavarsi un ruolo nella ridefinizione del livello binario tra i membri d’onore di una ristretta serie A e gli altri retrocessi a università parcheggio. Voler appartenere alla fascia alta del ranking comporta, ai fini di una maggiore competitività: l’adeguamento della loro offerta formativa e dell’attività di ricerca agli standard comunitari, un processo di “elitarizzazione” dell’istruzione accademica, l’esclusione di un sapere non direttamente funzionale alle logiche di mercato, l’espulsione di tutti quei soggetti che rifiutano questo modello. Un modello sulle cui basi materiali si potrebbe approfondire una vera e propria inchiesta, l’unica in grado di dirci su cosa sarebbe necessario muoversi oggi per organizzare un’inversione di rotta ancorata alla situazione concreta del paese, del capitalismo nostrano e non solo, aldilà del modello di università dei sogni che noi vorremmo proporre per assecondare le nostre attese più oniriche.

Crediamo che dopo anni di quasi totale assenza di uno sguardo critico sul nostro sistema universitario, escluse alcune encomiabili voci che pure spesso non riescono a uscire dalla mera rivendicazione di maggiori fondi, sia necessario avviare un percorso di confronto con i piedi ben saldi nella realtà, ma che sappia porsi nell’ottica di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Siamo una generazione a cui la negazione del futuro viene impartita con la sottrazione del presente e abbiamo bisogno di saperci dotare di strumenti per orientarci tra i dispositivi di dominio e di controllo entro cui ci vogliono inscrivere. Tornare ad affrontare il nodo della formazione significa saper capire qual è la differenza tra ciò che noi vogliamo e quello che invece ci vuole riservare il potere ordoliberale che tenta di funzionalizzare le nostre vite, un potere organizzato nelle cabine di comando che vanno dai vertici di Bruxelles fino ai piccoli sindaci locali, un potere unito nel disegnare i contorni di un polo continentale che possa reggere una competizione globale sempre più acuta. Non c’è spazio per tutti, solo per pochi eletti: questo è quello che ci stanno dicendo.

Crediamo che un primo passaggio per comprendere quel che sta accadendo al mondo della formazione superiore stia nell’avviare nei nostri atenei una fase di studio ed elaborazione. E’ per questo che abbiamo deciso di lanciare un primo appuntamento di confronto l’1 dicembre a Bologna con studenti politicamente attivi in differenti città italiane, a termine della settimana in cui l’Unibo sarà sotto la lente d’ingrandimento dell’ANVUR per l’accreditamento e la valutazione dei corsi di studio e della ricerca, nello stesso ateneo che meno di un anno fa vedeva l’intervento della polizia antisommossa all’interno dei locali di una biblioteca.

È a partire dagli anni Novanta che si assiste al progressivo snaturamento del ruolo dell’università pubblica in Italia, dando il via al processo di aziendalizzazione dell’istruzione accademica attraverso varie riforme (di cui il Bologna Process è l’architrave) che hanno sancito l’autonomia degli atenei dal controllo diretto del Miur e il principio di concorrenzialità tra di essi, la creazione di corsi di laurea a numero chiuso, la nascita della famosa struttura 3+2, il riordino dell’attività di ricerca (tra le altre cose spariscono i contratti a tempo indeterminato per i ricercatori), a cui si sommano i drastici tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO).

Alla luce di queste cambiamenti, che tipo di università stanno diventando quelle in cui studiamo?

Su cosa puntano nella loro offerta formativa?

Quali sono le conseguenze che si producono in questo scenario?

Organizzano:
Noi Restiamo – Bologna
Noi Restiamo – Torino
Collettivo Politico Porco Rosso – Sinea
Libera Bilbioteca de Carlo – Urbino
Federazione De Sa Gioventude Indipendentista – Sardegna
Passpartout – Bologna

partecipa: Rethink Economia – Bologna

Nel corso dell’assemblea, presentazione del primo numero del giornale del Forum To Fight (network studentesco internazionale)