Il 4 novembre, i Parà e la Somalia nel ’93

Oggi, 4 novembre, si festeggia la vittoria (?) dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Al di là della retorica post-risorgimentale che ha sempre ammantato la narrazione della Grande Guerra, la ricorrenza è meglio nota come “giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”.

Tale giornata, insieme a quella del 2 giugno in cui vengono fatti sfilare tutti i rambos dell’EI, ha lo scopo di restituire un’immagine edulcorata ed eroica, nonché virile e orgogliosa dei militari, che in un’Italia così profondamente militarizzata come quella attuale contribuisce al processo di metabolizzazione delle divise che vediamo ogni giorno nelle nostre strade e nelle nostre piazze.

In particolare qui a Siena, davanti al palazzo del comune, troviamo da qualche settimana i piantoni dei parà della Folgore, profondamente legati alla città in quanto la caserma Bandini di piazza Amendola ospita da sempre il 186° Reggimento paracadutisti, il reparto più politicizzato e controverso di tutto il panorama militare italiano: molti conoscono la loro canzone “lo sai che il paraca ne ha fatta una grossa/ si è pulito il culo con la bandiera rossa/bombe a mano e carezze col pugnal”, molti meno magari conoscono i diffusissimi casi di nonnismo e violenze, che portarono nel ’99 alla morte di un soldato di leva nella caserma Gamerra di Pisa, per mano dei suoi commilitoni. Nessun responsabile venne trovato e nessun ufficiale venne sollevato dal proprio incarico, tutto venne velocemente insabbiato e non se ne parlò più (fino allo scorso settembre, quando la commissione parlamentare d’inchiesta istituita ad hoc decide di riaprire il caso).

Visto lo spirito combattivo, violento e predatorio con cui vengono formati i militari della Folgore, essi vengono considerati la punta di diamante dell’Esercito Italiano, tanto che numerosissime sono state le “missioni di pace” sponsorizzate dall’O.N.U. a cui il 186° rgt ha partecipato; tra le più famose ci sono Somalia nel ‘93 e le diverse missioni nei Balcani dei primi anni Duemila.

L’intervento nell’Africa Orientale si caratterizzò per l’incapacità dei generali turco-americani dell’epoca di saper interpretare un conflitto interno allo stato somalo che, dall’obiettivo principale di supporto ai civili e disarmo, portò gli eserciti occidentali a inserirsi muscolarmente tra le fazioni tribali in lotta e inasprire il conflitto. La radicalizzazione dello scontro portò, il 2 luglio ’93, ad uno scontro a fuoco tra il contingente italiano e i miliziani somali – balzato alle cronache come “battaglia del Checkpoint Pasta” – in cui persero la vita  tre militari italiani (mentre dall’altra parte le perdite erano state un po’ più consistenti, oltre 70 le vittime e centinaia i feriti). Fu questo accadimento a far scoppiare quello che si è rivelato essere un escalation di rappresaglie e crimini di guerra di cui gli eserciti occidentali si sono macchiati.

In particolare l’esercito belga, francese, americano, quello canadese e, a causa delle azioni dei nostri parà, quello italiano, sono stati accusati di abusi e violenze nei confronti dei prigionieri. Se quanto accaduto laggiù, una volta raccontato, è costato la carriera ad alti generali e ad artefici isolati arrestati in Canada e Belgio, in Italia si aspettò tre anni prima di parlarne (grazie ad una “soffiata” di un militare che aveva documentato le sevizie) e nonostante lo scandalo solo un ufficiale venne accusato di abuso di autorità, che però cadde subito in prescrizione.

Al di là delle terribili violenze di cui arrivarono le testimonianze, come quella del giovane somalo legato e torturato con degli elettrodi nei testicoli e lo stupro di una ragazza da parte di un branco della Folgore utilizzando un razzo di segnalazione, quello che appare come centrale è la classica narrazione della colonia (perché, ricordiamolo, la Somalia è stata una colonia italiana per quasi 70 anni) come posto in cui dar sfogo ai propri istinti animali. Tra l’epoca del colonialismo e quella della visual culture globale e della fine della guerra fredda sono passati molti anni ed è logico che alcune retoriche e modelli di riferimento siano cambiati, ma in essi vi è comunque un sottofondo di razzismo e di visione colonizzatrice. La lontananza in un luogo esotico come “spazio della morte” in cui commettere eccessi, il cuore di tenebra, è comune alla società occidentale, soprattutto se controbilanciato dall’immagine che si vuole dare del militare civilizzatore ed “esportatore di democrazia”, ritraendolo mentre gioca a pallone in mezzo a bambini sorridenti: altro non è che la continuazione del mito del “bono taliano”, aggiornato all’epoca dei diritti umani e delle coalizioni multinazionali.

Stando alle interviste riportate sul famoso reportage di Panorama che nel ‘97 denunciò questi crimini, fu la ritorsione a muovere quell’istinto becero. Poiché erano stati uccisi tre parà, gli italiani si sono sentiti in diritto di violentare e torturare civili (un po’ come il rapporto “10 per 1” utilizzato dagli occupanti nazifascisti tra il ’44 e il ’45). In una missione durante una guerra dove il fronte non è ben definito ed i nemici si annidano dietro l’angolo la tortura diviene una ritorsione contro un generico nemico che diventa tutto il popolo. Ma per quegli uomini, una parte dei quali appartenenti a gruppi razzisti e neofascisti, era anche un divertimento sadico, un divertimento per militari assuefatti alla violenza dalle scene che vedevano intorno, tanto da non aver più ben chiaro nemmeno quel che stessero facendo. In questo caso però la violenza, l’obbedienza ai superiori, la mancanza di pietà per gli indifesi, il disprezzo per il diverso non provengono dall’ideologia autoritaria, ma dalla loro appartenenza ai corpi d’élite: l’addestramento durissimo cui sono sottoposti i paracadutisti, concentrato sui modi per uccidere un uomo ed utilizzare le armi, lascia queste persone senza la cultura necessaria per disporre con coscienza del loro potenziale militare.

Appare chiara quale sia la narrazione prevalente all’interno di quell’istituzione che oggi è stata celebrata: violenza, prevaricazione e soprusi al servizio dello Stato, infarciti da una mitizzazione del soldato come superuomo valoroso, virile e determinato. Una narrazione che, visti i canali preferenziali per entrare nei corpi delle forze dell’ordine riservati a chi è stato nell’esercito, si è diffusa ormai anche tra Carabinieri e Polizia di Stato, in particolare nei reparti celere dove questa esaltazione della violenza viene sfruttata al meglio.

Siamo così certi che gli eredi di questi personaggi oggi siano garanzia di sicurezza nella città di Siena? Da parte nostra siamo convinti di una cosa: posizionare due belle statuine in divisa mimetica di fronte al Palazzo Pubblico non significa assolutamente maggiore protezione da eventuale pericolo terrorismo o un non ben specificato altro tipo di pericolo. Siamo convinti al contrario che la loro presenza sia di semplice facciata, magari utile al Pd senese per strappare un pezzo dell’elettorato alla destra alle prossime elezioni, assecondando quel clima emergenziale che viviamo oggi e che costituisce terreno fertile per retoriche razziste e violenze fasciste. E tutto ciò oggi trae legittimazione legale oltre che politica proprio dai famigerati decreti del “ministro dell’ordine” Minniti.

La politica del “nemico interno” è la politica di Stati che hanno assunto ormai il ruolo di “secondini dei popoli”, mostrando come allo smantellamento dello Stato sociale debba necessariamente conseguire il rafforzamento dello Stato penale. Noi non siamo disposti a vivere in uno Stato d’emergenza “a bassa intensità”. La nostra lotta è la lotta di chi voleva dare “pane e pace” a chi moriva di fame o di guerra, la lotta dei partigiani che si sono ribellati all’autoritarismo fascista e alla violenza nazista, la lotta dei popoli africani, asiatici, sud americani che hanno scacciato gli schiavisti occidentali e si sono prodigati per costruire una società più equa e più giusta, la lotta dei popoli che vogliono riappropriarsi del potere di decidere di loro stessi, come il popolo catalano che sta tentando di scrollarsi di dosso i resti feudali di una monarchia connivente con gli eredi del franchismo.

 

Per chi volesse approfondire l’argomento della costruzione di personalità violente nei corpi d’élite, qui un autoetnografia: [https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1994397]