Le ultime rivelazioni l’assassinio di Sakine Cansiz e di altre due attiviste Fidan Doğan e Leyla Şaylemez avvenuto a Parigi il 9 dicembre 2013 presso il Centro di Informazione per il Kurdistan hanno gettato luce su uno dei capitoli più tristi della storia dei rapporti tra occidente e stato turco.
Questo articolo viene pubblicato durante le ore tragiche dell’attacco da parte dello stato turco contro la popolazione del cantone di Afrin, nel Rojava liberato dall’occupazione di Daesh. Ai compagni va tutta la nostra solidarietà e la nostra complicità, dal nostro piccolo speriamo che anche queste poche righe possano aiutare a dare visibilità alla lotta del popolo curdo in un occidente troppo sordo.
Quella di Sakine Cansiz è una di quelle storie complesse e difficili raccontare: quando ci si trova di fronte a simili personaggi che si stagliano sullo sfondo della storia diventa quasi impossibile non cadere in una condizione di timore misto ad ammirazione. Stiamo parlando infatti di una delle più grandi rivoluzionarie della storia dell’umanità, della sua vita di lotta per l’autodeterminazione del popolo Kurdo e della sua morte per mano assassina armata dallo stato turco. Ma andiamo con ordine, partendo proprio dalla fine di questa storia. In agosto infatti un blitz dell’HPG, braccio armato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ha portato all’arresto di alcuni membri del MIT, il servizio segreto turco. I fatti di cui parliamo sono avvenuti a Suleymania, nel Bashur, il Kurdistan meridionale – iracheno. I fatti sono stati ampliamente documentati da UIKI e hanno gettato la base di quello di cui i compagni curdi erano a conoscenza da molto tempo: l’assassinio di Sakine, Fidan e Leyla è stato pensato e portato avanti dagli stessi interlocutori che pubblicamente si dichiaravano favorevoli al processo di pace e alle trattative tra stato e PKK. il mandante è chiaro: lo stato turco stesso!
Per comprendere l’importanza della figura di Sakine per il movimento curdo bisogna risalire alla nascita del PKK, di cui Sakine è stata una dei membri fondatori e di viene universalmente riconosciuta come leader al pari del presidente Abdullah Oçalan, incarcerato nell’isola prigione di Imrali in Turchia da più di un quindicennio.
Sakine Cansiz nasce nella regione di Dersim, Tunceli in turco, città del Bakur (Kurdistan del Nord) a maggioranza curda di lingua Zaza e principalmente di religione Alevita; questa zona era stata teatro di un insurrezione Alevita già alla fine degli anni ’30 come risposta alla turchizzazione dello stato da parte di Mustafà Kemal Ataturk, repressa con una grande violenza da parte della neonata repubblica di Turchia che lasciò sul campo più di tredicimila abitanti della regione e ne costrinse all’emigrazione forzata quasi dodicimila. La repressione violentissima dello stato Turco nella zona è da inserire in un vero e proprio progetto di etnocidio; questa era infatti una delle ultime zone che sfuggivano al progetto di modernizzazione dello stato da parte del governo di Ataturk e che neanche dopo una legge speciale varata per la regione nel ‘35, ribattezzata Tunceli proprio in quel momento, si riusciva a ricondurre i capi tribali Aleviti nella narrazione ufficiale di “turchità” dello stato. Questa ribellione si situa in un contesto di rivolte di sceicchi e capi tribali curdi abbastanza frequenti nei primi anni di vita della Repubblica di Turchia, la prima già del 1925 e altre ancora nell’area del monte Ararat tra il ’28 e il ’30. Le rivolte curde di questo periodo sono sempre state represse nel sangue, con un utilizzo della forza militare che non può non essere vista come vera e propri ostentazione di potenza da parte dello stato nascente. Tutto questo deve però essere compreso in una complessità storica che vede la popolazione e la cultura curda in un continuo cambio di posizione nella retorica kemalista; durante la guerra di indipendenza guidata da Ataturk contro gli invasori dei resti dell’Impero Ottomano in dissoluzione, il padre della patria turca aveva fatto proprio un chiaro progetto di unità di tutti i musulmani “non arabi” che risiedevano nel vecchio territorio imperiale, chiamando in una prima fase ad una vera e propria fratellanza turco-curda. Di fatto il progetto kemalista appare come pura e semplice volontà di assimilare i curdi, rompendo le solidarietà tradizionali basate sul rapporto con le istituzioni tribali, giustificando il tutto con “l’opposizione all’oppressione dei capi sulla popolazione”.
Il 3 marzo 1924 venne emanata una legge che abolì tutte le scuole curde e che proibiva la nascita di associazioni, questo tipo di approccio è stato seguito non solo negli anni del kemalismo, ma perfino inferocito sotto le dittature militari e fasciste. L’appartenenza alla NATO e la presenza di basi militari americane nel territorio ha inoltre permesso alle dittature di giustificare e aumentare la repressione. Di fatto le organizzazioni curde in Turchia in questo momento fanno ancora riferimento ad un background ideologico basato sul nazionalismo e la propria specificità etnica e culturale come fattori identitari, bisogna aspettare gli anni 60 perché emergano le prime istanze socialiste e marxiste e si formi un vero e proprio movimento. In questo periodo cambia radicalmente la retorica dello stato contro il movimento curdo, accusato fino a quel momento di essere reazionario e tribalista; questo avviene anche per l’appoggio dato dall’URSS alla sfortunata Repubblica di Mahabad un quindicennio prima nel Kurdistan iraniano e durata appena un anno, ma soprattutto perché molti militanti del TIP (Partito dei Lavoratori della Turchia) e dei sindacati sono di etnia curda. Proprio all’interno di quel partito verrà per la prima volta riconosciuta la specificità dei curdi, per questo motivo il partito verrà sciolto dopo il golpe del ’71.
Sono anni complicati per la Turchia, che vista come baluardo occidentale contro il comunismo piomba in una spirale di violenze politiche che culminano nelle dittature militari.
È il 15 agosto 1984 che però inizia la lotta armata di fatto, proprio con la fondazione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel ‘78 ad opera di Oçalan e Sakine Cansiz infatti si porta il conflitto tra stato e popolazione curda ad un altro livello. In questi anni si ha oltretutto la grande deportazione di massa di molti curdi di Dersim verso la parte occidentale dell’Anatolia, grazie ad un decreto per la “riforestazione” della zona vengono spostate almeno 50 mila persone.
Il PKK è un’organizzazione Marxista-Leninista che si ispira inizialmente agli scritti di Ho Chi Min, costretti a fuggire in Siria e Libano dopo il colpo di stato del 1980 i leaders cominciano ad organizzare e coordinare la lotta armata in Turchia, cominciando di fatto quel conflitto ancora in corso con lo stato turco.
Fondamentale per comprendere la storia del movimento è però la svolta del PKK in senso libertario a fine anni ’90, con l’elaborazione di un sistema di governo senza stato pensato per il medio oriente e basandosi sul pensiero politico di Murray Bookchin. Il confederalismo democratico è la nuova aspirazione del movimento, che pur criticato dalle altre realtà per i metodi “terroristici” di attacco contro la polizia turca finisce per diventare largamente maggioritario nel Kurdistan di Turchia (Bakur) e Siria (Rojava). Questo metodo di fatto si basa sull’autogoverno del territorio da parte delle municipalità basate su un sistema di due co-sindaci. Altro aspetto fondamentale è infatti il forte impianto femminista che il PKK ha sviluppato in questi anni, con l’istituzione di gruppi di autodifesa femminile e l’istituzione delle case delle donne, dove le vittime di violenza domestica possono rifugiarsi scappando dai mariti e dove viene offerta loro protezione.
Sakine Cansiz in gioventù fuggì dalla famiglia che ne disapprovava il comportamento rivoluzionario per unirsi ai movimenti studenteschi ad Ankara ed Elazığ, cominciando così a collaborare con Oçalan e fondando con lui il PKK nel 1978. Al contrario di altri leader non riuscì a fuggire all’estero dopo il colpo di stato del 1980 e fu arrestata ed imprigionata. Proprio in virtù delle terribili torture subite in carcere la sua figura è diventata un vero e proprio simbolo di resistenza, soprattutto dopo la sua difesa politica di fronte al tribunale militare di Diyarbakir dove si presentò come donna leader del PKK. La sua prigionia finì nel 1991, quando riuscì anche a lasciare la Turchia e ricongiungersi con i suoi compagni di lotte in esilio negli altri stati mediorientali; una delle prime colonne di donne combattenti venne formata da lei in questo periodo, presumibilmente in Iraq. Nel 1998 le fu concesso asilo politico in Francia, dove diventò uno dei membri principali del KNK: il congresso nazionale curdo con sede a Bruxelles nato con la funzione di organizzazione ombrello della diaspora curda rispetto alle istanze che si sono nel frattempo sviluppate in medio oriente, intorno al nuovo sistema del confederalismo democratico. Durante questo periodo Sakine fu incarcerata per poco tempo ad Amburgo.
Questa è la fase della distenzione tra PKK e stato turco, con il cessate il fuoco unilaterale chiamato da Oçalan dalla prigionia tra il governo di Erdogan e il movimento curdo cominciano delle vere e proprie trattative. Queste trattative oggi sono fallite dopo che il governo turco ha visto nella persecuzione del partito filo curdo HDP, il Partito Democratico dei Popoli, un modo per cementare il progetto di egemonia regionale di Erdogan; così come viene vista come un pericolo mortale per gli scopi del governo turco la formazione del Rojava al confine siriano, dove si sta applicando il sistema di governo del multietnico confederalismo democratico nei territori riconquistati a Daesh. Dal 2013 l’est del paese è piombato di nuovo nella guerra civile, con una violenza senza precedenti contro la popolazione civile da parte delle truppe speciali Turche. È proprio ad inizio di quell’anno che i corpi delle tre attiviste furono ritrovati a Parigi, assassinate a colpi di pistola; dell’omicidio è sato accusato il turco Ömer Güney, morto in circostanze poco chiare in un carcere della capitale francese nel dicembre 2016.
L’assassinio è stato condannato sia dal primo ministro francese Valls, che ha parlato di vera e propria esecuzione, che dallo stesso Erdogan, quest’ultimo ha però puntato il dito contro un possibile regolamento di conti interno al PKK; il movimento curdo ha denunciato l’avvenimento tramite i suoi canali puntando il dito contro “forze oscure” che dall’interno del governo turco volevano interrompere i negoziati.
Il corpo di Sakine fu riportato in Turchia e sepolto a Dersim.
La sua figura è da ricondurre al motivo del culto dei martiri, sviluppatissimo in tutto il movimento curdo, tra questi lei è vista come forse la vittima più importante dello stato turco. Ma l’importanza di Sakine non è da ricondurre del tutto nè alla sua effettiva attività come leader del PKK né alla figura del martire nella celebrazione interna della lotta. Sakine Cansiz è vista come la principale leader del movimento, al pari di Oçalan ma con una funzione sostanzialmente differente; se infatti al leader imprigionato viene riconosciuto il ruolo di guida ideologica e politica di tutto il movimeno, tanto che le trattative con lo stato passano direttamente dalla sua persona, Sakine nell’immaginario rappresenta la parte femminile della lotta, intesa in tutta la sua forza militante e militare allo stesso tempo.
Alla luce delle nuove rivelazioni crediamo che sia giusto tributare questo ricordo ad una grande donna, esempio per le rivoluzionarie e i rivoluzionari di tutto il mondo. Una donna che ha tributato la sua stessa vita alla lotta per l’autodeterminazione del suo popolo, come molte altre ha subito le vessazioni del potere di uno stato votato al colonialismo e all’imperialismo.
Alcune letture di storiografia sul mondo curdo
Galletti M.; I Curdi nella storia; Chieti; Vecchio Faggio; 1990
Froio, F.; I Curdi: il dramma di un popolo dimenticato Milano : Mursia ; 1991
Martin van Bruinessen,; “Genocide in Kurdistan? The suppression of the Dersim rebellion in Turkey (1937-38) and the chemical war against the Iraqi Kurds (1988)”, in: Conceptual and historical dimensions of genocide.; a cura di George J. Andreopoulos; University of Pennsylvania Press, 1994, pp. 141-170.